Parafrasi, Analisi/Commento e Note del Canto XXVI dell' Inferno (Ulisse)

Dante Alighieri - Divina Commedia - Inferno – Canto XXVI – vv. 1-142

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    Ulisse



    (Divina Commedia - Inferno – Canto XXVI – vv. 1-142 di Dante Alighieri)

    Parafrasi:

    Rallegrati, Firenze, perché sei così famosa da percorrere il mare e la terra, e il tuo nome è conosciuto persino all'Inferno!
    Tra i ladri incontrai cinque tuoi cittadini, tali che a me viene vergogna e tu certo non acquisti onore.
    Ma se vicino al mattino si fanno sogni veritieri, di qui a poco tempo tu riceverai il castigo che tutte le città, anche quelle piccole come Prato, ti augurano.
    E se anche accadesse già, sarebbe comunque tardi. Potesse allora succedere, dal momento che è inevitabile! Quanto più invecchierò, tanto più questo castigo mi sarà insopportabile.
    Noi ci allontanammo e il maestro risalì su quelle rocce che, prima, ci avevano fatti impallidire a scendere, e mi portò con sé;
    e proseguendo lungo la via solitaria, il piede non poteva avanzare senza l'aiuto delle mani tra gli spuntoni e le schegge della roccia.
    Allora provai dolore, e lo provo anche adesso pensando a ciò che vidi, e tengo a freno il mio ingegno più del solito affinché non agisca senza la guida della virtù; così che, se un benigno influsso astrale o qualcosa di più importante (la grazia divina) mi hanno dato il bene, io stesso non me lo sottragga.
    Quante sono le lucciole che il contadino, quando si riposa sulla collina nella stagione (estate) in cui il sole tiene meno nascosta a noi la sua faccia, nell'ora (la sera) in cui la mosca lascia il posto alla zanzara, vede giù nella valle dove egli vendemmia e ara;
    altrettante fiamme risplendevano nella VIII Bolgia, come io vidi non appena fui là da dove il fondo era visibile.
    E come colui (Eliseo) che si vendicò con gli orsi vide il carro d'Elia che partiva, quando i cavalli si levarono alti nel cielo, e non lo poteva seguire con lo sguardo senza vedere altro che la fiamma, che saliva su come una nuvoletta:
    così sul fondo della Bolgia si muove ciascuna fiamma, in modo tale che nessuna mostra l'anima nascosta all'interno, e ogni fiamma cela un peccatore.
    Io stavo sopra il ponte, proteso per vedere al punto che, se non mi fossi aggrappato a una sporgenza rocciosa, sarei caduto in basso senza essere urtato.
    E il maestro, che mi vide così attento, disse: «Dentro quei fuochi ci sono delle anime; ognuna è fasciata dalla fiamma che la avvolge».
    Io risposi: «Maestro mio, ora che ti ascolto ne sono più certo; ma avevo già intuito che fosse così e volevo chiederti:
    chi c'è dentro quel fuoco la cui punta è biforcuta, tanto che sembra levarsi dal rogo funebre dove Eteocle fu messo col fratello (Polinice)?»
    Mi rispose: «Là dentro sono puniti Ulisse e Diomede, e sono dannati insieme come insieme commisero i loro peccati;
    e nella loro fiamma espiano l'inganno del cavallo di Troia che aprì la porta da cui uscì il nobile seme dei Romani.
    Vi è punito anche l'imbroglio per cui Deidamia, anche se è morta, ancora si rammarica di Achille, e si sconta anche il furto del Palladio».
    Io dissi: «Se essi in quelle fiamme possono parlare, maestro, ti prego con insistenza e ti prego ancora, così che la preghiera valga per mille, che tu non mi neghi di aspettare che quella fiamma a due punte venga qui; vedi che mi piego verso di essa dal desiderio!»
    E lui a me: «La tua preghiera è degna di grande lode, e perciò io la accetto; ma dovrai tenere a freno la tua lingua.
    Lascia parlare me, dal momento che so bene quello che vuoi; infatti essi, essendo stati greci, potrebbero essere restii a rivolgerti la parola».
    Dopo che la fiamma fu giunta nel punto in cui al mio maestro parve opportuno il tempo e il luogo, lo sentii parlare in questo modo:
    "O voi (Virgilio si rivolge alle anime di Ulisse e Diomede) che vi trovate in due dentro una sola fiamma (due dentro ad un foco - condannati a stare tra i consiglieri fraudolenti, sono racchiusi in una stessa fiamma divisa in due lingue), se io ho, durante la mia vita (mentre ch’io vissi), ho acquisito presso di voi qualche merito (s’io meritai di voi), grande o piccolo (assai o poco) quando sulla terra (quando nel mondo) scrissi i nobili versi (alti versi), non andate via (non vi movete): e uno di voi [Ulisse] racconti dove, per sua libera scelta (per lui), smarritosi andò (gissi) a morire".
    La punta più alta (lo maggior corno – nella lingua di fuoco di maggiore dimensione si trova Ulisse perché di maggiore fama rispetto al compagno) dell’antica fiamma (la fiamma in cui da secoli, perciò antica, Ulisse e Diomede scontano la loro pena) cominciò ad agitarsi (crollarsi) rumoreggiando proprio come quella che il vento scuote (affatica – si affatica per la difficoltà a rimanere accesa con i soffi di vento); poi, dimenando (menando) di qua e di là la punta, quasi fosse la lingua che parlava, gettò fuori la voce, e disse: "Quando mi allontanai (mi dipartì) da Circe (la maga Circe, figlia del Sole, si era innamorata di Ulisse e lo aveva trattenuto sulla sua isola, Eeta, ritardando il suo rientro a Itaca), che mi trattenne (sottrasse) per oltre un anno là vicino a Gaeta, prima che Enea la chiamasse così (come narra Virgilio nel canto VII dell’Eneide, Enea chiamò Gaeta quella località in memoria della nutrice Caieta ivi sepolta), né la tenerezza per il figlio (Telemaco), né il rispetto (pieta) per il vecchio padre (Laerte), né il dovuto (debito - legittimo) amore che doveva rendere felice Penelope (sposa di Ulisse), poterono vincere (vincer potero - anastrofe) dentro di me l’ardente desiderio (ardore) che ebbi di conoscere (divenir del mondo espertoanastrofe - diventare profondo conoscitore) il mondo, e i vizi e le virtù degli uomini (per Ulisse la sete di conoscenza è superiore a ogni altra aspirazione) ma mi misi in viaggio per lo sconfinato (aperto) profondo (alto) mare con una nave (legno - sineddoche) soltanto (sol), e con quella piccola schiera di uomini (compagna picciola) dai quale non fui mai abbandonato (non fui diserto).
    Vidi l’una e l’altra sponda (L'un lito e l'altro – del mediterraneo, quella europea e quella africana) fino alla Spagna, fino al Marocco (Morocco), e alla Sardegna (l'isola de’ Sardi - metonimia), e alle altre isole bagnate tutt’intorno da quel mare.
    Io e i miei compagni eravamo vecchi e lenti (tardi nei movimenti) allorché giungemmo a quello stretto varco (foce stretta – lo stretto di Gibilterra) dove Ercole (Ercule) fissò i suoi confini (riguardi – secondo il mito classico Ercole aveva stabilito che il limite del mondo esplorabile fosse lo stretto di Gibilterra), affinché (acciò che) l’uomo non si spinga oltre: lasciai alla mia destra Siviglia (Sibilia – sulla costa spagnola), alla mia sinistra ormai Ceuta (Setta – sulla costa africana del Marocco) mi aveva lasciato.
    "O fratelli" (frati - compagni), dissi, "che avete raggiunto l’estremità occidentale (del mondo conosciuto) in mezzo a centomila pericoli (cento milia perigli siete giunti - iperbole), in questo poco tempo (picciola vigilia)di vita sensibile (de’ nostri sensi), che ancora ci rimane (ch'è del rimanente), non vogliate negare la conoscenza (esperienza), seguendo la direzione del sole (di retro al sol – cioè andando verso occidente), della parte del mondo disabitato (mondo sanza gente – secondo la cosmologia dantesca, l’emisfero sud del mondo era disabitato perché completamente ricoperto dall’oceano).
    Riflettete sulla vostra origine (semenza): non siete stati creati per vivere come delle bestie (come bruti – come animali privi della ragione), ma per conseguire virtù morale ed estendere il vostro sapere” (antitesi – Ulisse contrappone il modo di vivere materiale e vegetativo degli animali a quello razionale e nobile dell’uomo).
    Con questo breve discorso (orazion picciola) resi i miei compagni così desiderosi (sì aguti) di mettersi in viaggio (al cammino), che a stento (a pena) dopo (poscia) sarei riuscito a fermarli; e rivolta verso Oriente (nel mattino) la poppa della nostra nave (e quindi la prua verso occidente), trasformammo i remi in ali (metafora) per quella folle impresa (folle volo – Dante la reputa folle perché ritiene le colonne di Ercole simbolo del limite invalicabile imposto da Dio alla conoscenza umana e cercare di superarle, senza l’aiuto della Grazia divina, che Ulisse in quanto pagano non poteva avere, è una follia), sempre avanzando (acquistando) verso sinistra (dal lato mancino – verso la costa africana).
    La notte ci mostrava già tutte le stelle dell’antartico (de l'altro polo – visibili soltanto dall’altro emisfero - anastrofe), mentre le stelle del nostro polo ('l nostro - il polo artico) erano così basse che non emergevano (surgea fuor) al di sopra della superficie del mare (marin suolo).
    Cinque volte si era illuminata (racceso) e altrettante (tante) spenta (casso) la luce della parte inferiore della luna (di sotto – l’emisfero visibile dalla terra), da quando avevamo intrapreso ('ntrati eravam - anastrofe) l’arduo viaggio (nell'alto passo), [erano quindi passati cinque mesi] allorché ci apparve una montagna (è la montagna del Purgatorio, unica terra emersa dell'emisfero australe), di colore scuro (e quindi indistinta) per la distanza, e mi sembrò tanto alta come non ne avevo mai vedute.
    Noi gioimmo (per aver avvistato la terra), e subito la nostra gioia si mutò in disperazione (tosto tornò in pianto) perché (chè) dalla terra appena avvistata sorse un turbine di vento (un turbo), che colpì (percosse) la prua (il primo canto la parte anteriore) della nave.
    Tre volte fece girare lo scafo su se stesso insieme con le acque circostanti (tutte l'acque); alla quarta (volta) fece sollevare (levar) la poppa verso l’alto (in suso) e fece sprofondare (ire in giù) la prua, come piacque a Dio (altrui), finché il mare si richiuse sopra di noi" (la nave affonda e l’oceano si richiude sopra di essa come se non fosse mai passata).

    Analisi/Commento:

    Ulisse è uno dei pochi personaggi incontrati da Dante che non appartiene alla realtà storica ma alla mitologia. Dante colloca l’eroe greco Ulisse, insieme a Diomede, suo compagno in alcune imprese, all’inferno, tra i consiglieri fraudolenti. Questa categoria di peccatori è incontrata da Dante nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio destinato alla punizione di quei peccatori che in vita agirono con il deliberato intento di ingannare il prossimo. In particolare vi si trovano, avvolti in fiamme appuntite a forma di lingua, coloro che misero il loro ingegno al servizio della frode e non della virtù.
    Ulisse e Diomede sono avviluppati ed uniti in una unica fiamma biforcuta, simbolo degli incendi e delle sventure che Ulisse suscitò in vita con l’uso improprio della sua intelligenza (come per esempio l’ideazione del cavallo di Troia che permise ai Greci di espugnare la città). Virgilio li ferma e prega Ulisse di narrare le ultime vicende della sua vita avventurosa.
    L’Ulisse di Dante è un uomo dominato da una inestinguibile sete di conoscenza, insofferente di ogni limite e ciò lo porta ad intraprendere, insieme a pochi fedeli compagni, un audace viaggio per mare verso l’ignoto. Il tentativo di Ulisse è un’impresa assurda, un “folle volo”, ed è destinata ad una conclusione tragica dato che la ragione non può, da sola, senza l’aiuto di Dio, conseguire la conoscenza assoluta della verità.
    Il significato del canto è dunque che ogni scelta umana che trascuri i valori religiosi costituisce una ribellione all’ordine voluto da Dio e conseguentemente verrà punita. Ulisse superando i limiti imposti da Dio alla conoscenza trasforma il desiderio di conoscenza da virtù in vizio, in quanto offesa al volere divino, macchiandosi così di una grave colpa.

    Note:

    Il v. 7 allude alla credenza medievale, già attestata in età classica, che i sogni fatti verso il mattino fossero premonitori di eventi reali.
    L'espressione al v. 12 (ché più mi graverà, com' più m'attempo) vuol dire probabilmente che il castigo di Firenze, quanto più tarderà, tanto più sarà grave per il poeta ormai invecchiato, ma altri intendono che esso sarà tanto più grave quanto più tarderà a giungere.
    Alcuni mss. leggono al v. 14 i borni («le schegge di pietra»), intendendo gli spuntoni avevano aiutato i due poeti a scendere; il verso vuole invece dire probabilmente che la discesa li aveva resi «pallidi» (iborni, dal lat. eburneus, «d'avorio»).
    Colui che si vengiò con li orsi (v. 34) è il profeta Eliseo, che per punire dei ragazzi che lo schernivano per la sua calvizie invocò contro di loro la maledizione divina: da un bosco uscirono due orsi che ne sbranarono quarantadue (IV Reg., II, 11-12).
    Eteocle e Polinice (v. 54) erano i due fratelli tebani figli di Edipo e Giocasta: si odiavano al punto che, dopo essersi uccisi l'un l'altro, dal rogo funebre su cui furono posti insieme si levò una fiamma divisa in due.
    Il promontorio di Gaeta (v. 92) fu così chiamato secondo la leggenda da Enea, in onore della sua balia Caieta morta in quel luogo.
    I vv. 106-108 alludono alle colonne d'Ercole, ovvero le montagne di Calpe in Europa e di Abila in Africa che l'eroe mitologico avrebbe posto ai lati dello stretto di Gibilterra con l'ammonimento non plus ultra, «non procedere oltre».
    Il v. 126 indica che la nave di Ulisse seguì sempre la rotta sud-ovest, procedendo verso sinistra.
    Lo lume... di sotto da la luna è l'emisfero lunare a noi visibile; sono cioè trascorse cinque lunazioni (cinque mesi).
    Il v. 139 riecheggia Aen., I, 116-117: ter fluctus... / torquet agens circum, et rapidus vorat aequore vortex («per tre volte il flutto fece girare in tondo la nave, e il rapinoso vortice la fece sprofondare in mare»).
     
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