Parafrasi, Analisi/Commento e Note del Canto I dell' Inferno (Selva oscura, fiere e Virgilio)

Dante Alighieri - Divina Commedia - Inferno – Canto I – vv. 1-136

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    La selva oscura, le fiere e Virgilio



    (Divina Commedia - Inferno – Canto I – vv. 1-136 di Dante Alighieri)

    Parafrasi:

    A metà del cammino della vita (nel mezzo del cammin di nostra vita – ripreso da un passo del Convivio - significa a 35 anni) mi ritrovai in (per = entro) una buia boscaglia (selva oscura allegoria del peccato e della dannazione) perché avevo smarrito la giusta via (la diritta via = la via che conduce alla salvezza).
    Ahimé, descrivere cos’era è cosa ardua (dura) questo bosco selvaggio (selva selvaggia - paronomasia), impervio e difficile (forte), che al solo ripensarvi mi torna la paura!
    È tanto angosciante (amara – è riferito alla selva) quasi quanto la morte; ma per dire ciò che di buono vi trovai (trattar del ben ch'i' vi trovai = l’incontro con Virgilio), parlerò [prima] delle altre cose che lì ho viste (l'altre cose ch'i' v'ho scorte = le tre fiere da cui Virgilio lo libererà).
    Io non so descrivere il modo in cui vi entrai dato che il mio torpore (sonno – è il torpore dell'anima provocata dal peccato; è un'espressione ricorrente nelle Sacre Scritture e nei testi patristici) era tale in quel momento che abbandonai la giusta via (verace via = la diritta via del v.3, quella che porta a Dio da cui il poeta si era allontanato a causa del vivere peccaminoso. Beatrice glielo rimprovererà apertamente nel XXX canto del Paradiso.).
    Ma dopo che arrivai ai piedi (piè - metafora) di un colle (colle allegoria della salvezza), là dove finiva quella selva (la valle in cui si trova la selva oscura e che è identificabile con la selva stessa) che mi aveva turbato (compunto) il cuore di paura, guardai in alto e vidi la sua cima e il pendio già illuminate (le sue spalle vestitemetafora: la cima e il pendio del colle sono delle spalle coperte dai raggi del Sole, allegoria della Grazia divina ) dai raggi del Sole (pianeta = sole – metafora di Dio in base alle scritture) che conduce ciascuno per la giusta via (mena dritto altrui per ogne calle).
    A quel punto (allor) la paura si calmò (fu queta) un po’, che nel profondo dell'animo (lago del cormetafora per indicare la parte interna del cuore) avevo provato durante (m'era durata) la notte (notte – il poeta ha trascorso tutta la notte vagando nella selva. Ha anche un significato metaforico riferito alla condizione spirituale di Dante che si è allontanato dalla retta via) trascorsa nel dolore (pieta).
    Qui Dante inserisce una similitudine, vv.22-27, in cui paragona il pericolo scampato a quello del naufrago che, uscito dal pericolo, si volge al mare da cui è riuscito a salvarsi:
    E come colui che con respiro affannoso (lena affannata), uscito dal mare (pelago) e arrivato alla riva, si gira verso l’acqua minacciosa e guarda (guata), così il mio animo, che ancora fuggiva, si girò indietro a guardare quel passo (lo passo = la selva), che non lasciò vivo nessuno (allegoricamente è da intendere che il peccato, rappresentato dalla selva, conduce alla dannazione colui che non sa liberarsene).
    Dopo che ebbi (ch'èi) riposato un poco il corpo stanco (lasso), ripresi il cammino (ripresi via) lungo il pendio (piaggia) deserto, salendo (sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso - perifrasi per indicare la salita in cui il piede più in basso è fermo e puntato per dare la spinta che permette di salire).
    Ed ecco, quasi all'inizio (al cominciar) del la ripida salita (de l'erta), una lonza (lonza è una specie di lince - il termine deriva dal francese antico lonce. E’ il primo delle tre belve – lonza, leone e lupa - che Dante incontra e che simboleggiano i tre peccati principali che impediscono la via verso la salvezza. La lonza = allegoria della lussuria) agile e molto veloce (presta molto), coperta di pelo chiazzato (macolato); che non si scansava da davanti a me (non mi si partia dinanzi al volto), anzi impediva talmente il mio cammino che io fui più volte tentato (più volte vòlto - paronomasia) di tornare indietro.
    Era l’ora (temp'era) vicina al mattino (dal principio del mattino – era l’alba), e il sole sorgeva (montava 'n sù) in quella costellazione (con quelle stelle – è la costellazione dell’Ariete) nella quale si trovava congiunto quando Dio (l'amor divino) fece muovere per la prima volta (mosse di prima) le stelle (quelle cose belle – nel Medioevo si credeva che il mondo fosse stato creato in primavera, mentre il sole si trovava nella costellazione dell’Ariete); così che l'ora del giorno (tempo) e la bella stagione (la dolce stagione) erano per me (m'era) ragione (cagione) di speranza (a bene sperar) riguardo a (di) quella belva dalla (a la) pelle maculata (gaetta – dal termine provenzale caiet)[Dante pensa di poter sfuggire il pericolo perché il periodo è astrologicamente favorevole Infatti la mattina dell’equinozio di primavera, coincidente con il momento in cui Dio creò il mondo, era considerato propizio dal punto di vista astrologico] finché non mi mise paura (paura non mi desse) la presenza improvvisa di un leone (la vista che m'apparve d'un leone – leone = allegoria della superbia).
    Questo sembrava che venisse contro di me superbo (con la test'alta – la testa alta è espressione di superbia) e affamato, al punto che sembrava far tremare (tremesse - latinismo) l'aria.
    Ed una lupa (la lupa è la terza belva = allegoria della avarizia intesa come cupidigia non solo di denaro ma anche di onori, beni terreni, ecc.), che di tutti i desideri (brame) sembrava piena (carca) pur essendo magra, e già fece vivere molti popoli in miseria (molte genti fé già viver grame - La lupa è ritenuta da Dante l'origine di tutti i mali di Firenze e d'Italia perché l’avarizia induce ad accumulare ricchezze impoverendo il prossimo ed è il peccato più difficile da estirpare), la lupa (questaripetizione pleonastica del soggetto) mi trasmise una tale oppressione (gravezza) per la paura che mi diede la sua vista (ch'uscia di sua vista), che persi la speranza di arrivare in cima al colle (de l'altezza).
    Similitudine, vv.55-58, in cui Dante paragona lo stato d’animo dell’avido che perde i propri beni con il suo stato d’animo che dopo essersi illuso di aver quasi conquistato la salvezza se la vede invece sfuggire:
    E come per colui che volentieri accumula denaro (acquista), arriva il tempo che lo perde, al punto che nell'animo si rattrista e piange; simile a costui (tal) mi rese (mi fece) la belva senza (sanza – forma fiorentina del XIII sec.) pace (bestia sanza paceperifrasi per lupa, dato che il peccato che rappresenta, la cupidigia, non concede alcuna tregua, rende insaziabili), la quale, venendomi incontro, pian piano mi respingeva nell'ombra (là dove 'l sol tace = nella selva oscura - sol tace è una sinestesia: la sensazione visiva, il buio, viene rappresentata attraverso una sensazione uditiva, il silenzio).
    Quando vidi costui nel luogo deserto, gli gridai: «Abbi pietà di me, chiunque tu sia, un'anima o un uomo in carne e ossa!»
    Mi rispose: «No, non sono un uomo, lo sono già stato, e i miei genitori furono della Lombardia, entrambi nativi di Mantova.
    Nacqui sotto il governo di Giulio Cesare, anche se negli ultimi anni, e vissi a Roma sotto il governo del buon imperatore Augusto, al tempo degli dei pagani.
    Fui poeta, e cantai di quel giusto figlio di Anchise (Enea) che fuggì da Troia dopo che il superbo Ilio (Troia) fu bruciato.
    Ma tu, perché ritorni al male della foresta? Perché non scali il colle gioioso, che è principio e causa di ogni felicità?»
    «Allora tu sei quel Virgilio e quella sorgente che spande un così largo fiume di parole?» gli risposi vergognandomi.
    «O tu che sei luce e guida degli altri poeti, mi siano di aiuto il lungo impegno e il grande amore che mi hanno spinto a leggere la tua opera!
    Tu sei il mio maestro e il mio modello; tu sei il solo da cui io trassi il bello stile che mi ha reso celebre.
    Vedi la belva che mi ha fatto voltare; aiutami da lei, famoso sapiente, poiché essa fa tremare ogni goccia del mio sangue».
    «Tu devi compiere un altro viaggio,» mi rispose dopo avermi visto piangere, «se vuoi salvarti da questo luogo selvaggio.
    Infatti, la belva che ti fa urlare non lascia passare nessuno per la sua strada, ma lo impedisce al punto di ucciderlo.
    E ha un'indole così malvagia e malefica che non può mai soddisfare la sua bramosia, e dopo ogni pasto ha più fame di prima.
    Sono molti gli animali a cui si accoppia, e saranno sempre di più, finché arriverà il cane da caccia (veltro) che la farà morire con dolore.
    Costui non baderà alle ricchezze materiali, ma solo a quelle spirituali e la sua nascita avverrà tra feltro e feltro.
    Sarà la salvezza di quell'umile Italia, per cui morirono in battaglia Eurialo e Niso, Turno, la vergine Camilla.
    Costui le darà la caccia per ogni città, finché l'avrà rimessa nell'Inferno da dove l'invidia (del demonio) la fece uscire per la prima volta.
    Perciò io penso e giudico per il tuo bene che tu debba seguirmi, e io ti farò da guida; e ti porterò via di qui per guidarti in un luogo dell'Oltretomba, dove udirai le grida disperate e vedrai le antiche anime dei dannati, ciascuno dei quali invoca la morte definitiva.
    E poi vedrai coloro che sono contenti di subire pene (i penintenti del Purgatorio), perché sperano un giorno di raggiungere i beati del Paradiso.
    E se poi tu vorrai salire a visitare questi ultimi, allora ci sarà un'anima più degna di me per farti da guida: quando me ne andrò, ti lascerò con lei.
    Infatti, quell'imperatore (Dio) che regna lassù, non vuole che io entri nella sua città, in quanto fui ribelle alla sua legge (fui pagano).
    Dio ha autorirà in tutto l'Universo e in Paradiso governa; qui c'è la sua città e il suo altro trono; oh, felice colui che sceglie per risiedere in quel luogo!»
    E io gli dissi: «Poeta, in nome di quel Dio che non hai conosciuto e affinché io fugga questo male e altri peggiori, ti chiedo ti condurmi là dove hai detto, così che io veda la porta di San Pietro e coloro che descrivi tanto miseri».
    Allora si mise in cammino, e io lo seguii.

    Analisi/Commento:

    Il primo canto dell'Inferno rappresenta un proemio all’intera opera. Dante si trova in una selva oscura, simbolo del peccato e della dannazione. Il Poeta non si è accorto di esservi entrato perché il suo animo era intorpidito dal suo traviamento spirituale. Il superamento della selva e lo scorgere un colle rischiarato dalla luce divina è il primo passo verso la redenzione e la salvezza. Dante come un naufrago che scampato alla furia del mare, da riva, volge uno sguardo ai flutti da cui è riuscito a salvarsi, osserva la selva, lasciata alle sue spalle, e dopo un breve riposo si accinge a salire sul colle, simbolo della salvezza.
    Dopo aver attraversato la “selva oscura”, simbolo di traviamento spirituale, il pellegrino Dante esce in una radura da cui scorge un colle rischiarato dalla luce divina, segno dell’inizio di un percorso di redenzione. Proprio mentre inizia a salire verso la cima del colle tre fiere gli ostacoleranno il passo. La prima che gli si para davanti è una lonza ma Dante non la teme ritenendo che il periodo astronomico favorevole in cui è, ovvero la mattina dell’equinozio di primavera, essendo lo stesso in cui Dio creò il mondo, gli sarà di buon auspicio per affrontare l’ostacolo. La sua speranza però svanisce all’apparire delle altre due fiere, un leone ed una lupa che minacciosa lo costringerà a tornare sui suoi passi ed a rientrare nella “selva oscura”.

    Note:

    Il v. 1 è stato interpretato da alcuni come in quella metà della vita che si trascorre domendo (Dante racconterebbe una visione avuta in sogno), ma l'autore si rifà quasi certamente a un passo biblico (Isaia, 38, 10) dove si dice in dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi, cioè «andrò presso la porta dell'Inferno a metà dei miei giorni». Dante stesso, in Conv., IV, 23 descrive la vita umana come un arco che inizia a declinare dopo i 35 anni di età, senza contare che descrive il suo viaggio come realmente avvenuto (egli è andato sensibilimente nell'Aldilà). In Ps., LXXXIX, 10 si legge inoltre che dies annorum nostrorum... septuaginta anni («la vita dell'uomo dura settant'anni»), per cui è evidente che Dante intende collocare il suo viaggio nella primavera dell'anno 1300.
    Al v. 5 selva selvaggia è una paronomasia di forte sapore guittoniano.
    Il sonno citato al v. 11 è quello della ragione che conduce al peccato, come spesso indicato nelle Scritture.
    Il pianeta del v. 17 è ovviamente il Sole.
    Nel v. 27 il che può avere valore di soggetto o di compl. oggetto, quindi il senso può essere la selva, che non lasciò vivere nessuno oppure la selva, che nessuna persona vivente poté abbandonare. Pare più probabile la prima interpretazione, nel senso che il peccato provoca la morte dell'anima portando alla dannazione.
    Il v. 30 è stato variamente interpretato, ma forse Dante indica semplicemente che, tentando di scalare il colle, il piede più basso è quello più saldo e quindi l'ascesa è alquanto incerta. Altri pensano che il piede più basso sia il sinistro, simbolo degli appetiti materiali che frenano Dante sulla strada della salvezza (le due ipotesi non si escludono a vicenda).
    I vv. 37-40 indicano che è l'alba e il Sole è in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quella che era con lui al momento della Creazione fissata tradizionalmente in primavera: l'equinozio primaverile era considerato momento favorevole, quindi anche per questa ragione Dante si riconforta (l'indicazione permette inoltre di collocare il tempo dell'azione tra marzo e aprile del 1300, come successivamente verrà meglio precisato).
    Le rime ai vv. 44, 46, 48 (-esse / -isse) sono siciliane ed è dunque da respingere la lezione venesse di alcuni mss.
    La similitudine ai vv. 55-57 è di solito riferita all'avaro, ma alcuni hanno pensato al giocatore, che si rattrista quando perde tutti i suoi guadagni.
    Il v. 63 (chi per lungo silenzio parea fioco) può significare qualcuno, che a causa del lungo silenzio della luce (penombra) si scorgeva a malapena, oppure qualcuno, che a causa di un lungo silenzio (poetico) non aveva più voce. Questa seconda ipotesi alluderebbe al fatto che, dopo Virgilio, nessuno scrisse un poema paragonabile all'Eneide, quindi il poeta latino aveva perso autorevolezza. Le due interpretazioni possono coesistere.
    Ai vv. 68-69 Virgilio si presenta come originario di Mantova (era nativo di Andes, un piccolo villaggio vicino alla città sul Mincio) e indica i genitori come lombardi, con un anacronismo in quanto il termine Lombardia (che ai tempi di Dante alludeva a tutta l'italia settentrionale) non esisteva ai tempi dell'antica Roma.
    I vv. 73-75 alludono in modo perifrastico ad Enea, figlio di Anchise e protagonista dell'Eneide. Ilion è l'altro nome di Troia.
    Noia e gioia (vv. 76, 78) derivano dal provenzale e hanno significato assai più ampio che nella lingua moderna: il primo indica la piena e perfetta felicità, il secondo l'angoscia e la pena del peccato.
    Al v. 84 il volume è sicuramente l'Eneide. Lo bello stilo che ha fatto onore a Dante è lo stile alto e tragico di quel poema, che Dante ha già usato nelle canzoni dottrinali composte in precedenza e destinate ad essere commentate nel Convivio.
    Gli animali (v. 100) cui è detta accoppiarsi la lupa-avarizia sono gli uomini e non i vizi, come fu inteso da alcuni.
    Il peltro (v. 103) era una lega di piombo e stagno usata per forgiare le monete, quindi Virgilio dice che il veltro non sarà avido né di terre né di ricchezze.
    Sapienza, amore e virtute (v. 104) indicano le tre Persone della Trinità, ovvero Figlio, Spirito Santo e Padre.
    Il v. 105 (e sua nazion sarà tra feltro e feltro), riferito al veltro, è stato variamente interpretato: può riferirsi al feltro delle bandiere (la sua origine non sarà da una città in particolare), al feltro che foderava l'interno delle urne dov'erano votati i magistrati comunali (un podestà?), al panno del saio francescano (un papa di quell'Ordine?), a Feltre e Montefeltro (Cangrande della Scala, il cui territorio era compreso fra quelle città).
    Ai vv. 107-108 Virgilio ricorda alcuni personaggi dell'Eneide: Camilla, la regina dei Volsci alleata di Turno e uccisa dall'etrusco Arunte (XI, 758 ss.); Eurialo e Niso, i due giovani guerrieri troiani uccisi dai Latini mentre cercano di portare un messaggio ad Enea (IX, 177 ss.); lo stesso Turno re dei Rutuli, principale nemico di Enea e da lui ucciso nel finale del poema (XII, 936 ss.). Tutti sono ricordati come valorosi soldati caduti per il bene dell'Italia e, curiosamente, Turno viene citato tra i due amici Eurialo e Niso, mentre è interessante notare che due di loro sono troiani, gli altri due nemici di Enea (evidentemente tutti hanno partecipato alla costruzione della «nazione» italica, anche se schierati su fronti opposti).
    Nel v. 117 il verbo grida può avere il senso di invoca, oppure di impreca contro: nel primo caso, più probabile, significa che ogni dannato invoca la seconda morte, il definitivo annichilimento dell'anima; nel secondo, vuol dire che ogni dannato impreca contro la seconda morte, intesa come la dannazione.
    Il v. 127 crea un'analogia tra Dio e l'Imperatore sulla Terra, che impera (cioè estende la sua autorità) in ogni luogo ma regge (governa) propriamente solo nel proprio territorio: Dio ha autorità su tutto l'Universo e governa solo nell'Empireo.
    La porta di san Pietro (v. 134) è stata intesa come la porta del Paradiso, ma secondo altri è quella del Purgatorio descritta in Purg., IX e presidiata dall'angelo guardiano che è detto vicario di Pietro.
     
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